DAD – didattica a distanza

La didattica, nell’impossibilità di utilizzare piattaforme pubbliche, si è frastagliata in mille rivoli e strumenti, pesando sulla buona volontà, intraprendenza e connessione del corpo docente che, lasciato alla propria iniziativa individuale, si getta a spegnere l’incendio che divampa grazie al vuoto sociale. Navigando tra un google, zoom, teams, whatsapp, skype, facebook, youtube, nella consapevolezza che l’esperienza didattica non sia riducibile esclusivamente all’erogazione di contenuti.
Al netto di tutti i ragionamenti vi è la (banale?) constatazione che la didattica a distanza non può essere sostitutiva e considerata equivalente della didattica in presenza, sopratutto per la fascia di età 6-18 e che il motivo per cui è stata imposta sono le carenze strutturali delle scuole che, disorganizzate e sovraffollate, non permettono la didattica in aula opportunamente distanziati.
Quindi si torna di nuovo alla questione principale: i problemi materiali si spostano nel digitale, ma il digitale non può risolverli.
La scuola, nel vuoto del pensiero e delle risorse strategiche, è stata di fatto consegnata in toto alle grosse piattaforme commerciali. Ancora una volta, il meccanismo è il solito: di fronte a una scuola trasformata in azienda, svilita, dove mancano i soldi anche per il sapone, che andrebbe ripensata e riorganizzata con affetto, ci si affida al presunto potere taumaturgico della tecnologia. Non si può pensare che questa scelta non avrà ripercussioni sul futuro. Né si può pensare che sia una scelta ovvia ed automatica, con buona pace di tutti i discorsi sul free software nella pubblica amministrazione, che si fanno da praticamente 20 anni.
Salvo poi scoprire che la tecnologia non è così accessibile, ma è invece ulteriore fonte di diseguaglianza sociale. Perchè possiamo fare finta che non sia vero che molte persone facciano teledidattica con i giga del proprio cellulare, che il territorio italiano sia fatto di paesini sperduti e nient’affatto connessi, che sfavillanti e velocissimi computer non siano affatto in ogni casa, però, per l’appunto, stiamo facendo finta.
Quella che era già una tendenza problematica (una scuola fatta di didattica frontale e di valutazioni basate sulla quantificazione) rischia ora di diventare la norma perché “siamo in emergenza”. L’emergenza di oggi porta al pettine i nodi problematici della società che abitiamo.  Lo stato di crisi è strutturale e rende evidenti vulnerabilità preesistenti che non si possono risolvere normando l’emergenza ma solo in un processo di profondo cambiamento.
Una considerazione di ordine politico, per esempio sul fatto che la didattica a distanza (DaD) amplia, rafforza e rende operativo nel modo più nudo il “mercato globale dell’istruzione”; sul fatto che così quest’ultima diventa a tutti gli effetti un prodotto standard, progettato per essere del tutto indipendente dal suo produttore; la “radicale esteriorizzazione del sapere rispetto al “sapiente”, qualunque sia la posizione occupata da quest’ultimo nel processo della conoscenza”,
Una considerazione adeguata su come la DaD si presti ad essere una vera e propria telesorveglianza: finalmente l’atteso strumento per un’efficace valutazione della didattica, . 
La considerazione di come la DaD rappresenti una spinta ulteriore verso una spettacolarizzazione della formazione, sempre più comunicazione/informazione per un pubblico interattivo-reattivo, non studenti ma appunto spettatori, il trionfo del modello “educational rai”.  
DAD?                           

La teledidattica è naturalmente priva dell''apprendimento: "orizzontale", mancando la possibilità di vedere durante la lezione le reazioni delle compagne, di capire se qualcosa che viene detto è importante, o se si tratta di una ripetizione, di bisbigliare e anche di copiare (una forma di apprendimento fondamentale), e si riduce a una forma di apprendimento "verticale". Nella sua forma più deteriore addirittura un broadcast non-interattivo da uno a molti. Lo stato del Messico, nell'impossibilità di provvedere alla riapertura delle scuole e non potendo contare su una popolazione abbastanza informatizzata, ha delegato la didattica a distanza alla televisione. Si, la scuola è la Tv e le lezioni sono sul canale 2. Buona visione. Inoltre la Didattica A Distanza è mediata dalla tecnologia che in questo caso emergenziale, oltre a non essere neutrale, è direttamente prodotto delle esigenze di profitto delle entità commerciali che le mettono a disposizione. Infine accentua la divisione e il debito formativo tra le famiglie abbienti, che hanno la possibilità di accedere a migliori tecnologie e di studiarne il funzionamento, a quelle non, che vengono schiacciate. Senza dimenticare che l'acronimo "DAD" significa 'Padre" in inglese e questo ci ricorda, non sappiamo se volontariamente o meno, la struttura patriarcale in cui siamo immers*.  E ora una preghierina: Padre nostro che sei dei nostri, liberaci dalla GMAFIA, paga la connessione..

snumbers

# snumbers

[adottato da: zeyev, da rugantio e da freebird]
[da report assemblea:]
Storie di come ti rigiro i numeri per farti credere tutto e il contrario di tutto.
Di come sia possibile manipolare la percezione che tutto vada bene e che andrà tutto bene, mentre il mio vicino di casa viene portato in ospedale.
Un uso indiscriminato della gaussiana e delle previsioni di cosa succederà senza neanche capire su quale modello ci stiamo basando.
Storie di statistiche e bigdata che falliscono ma che graficano da paura e infatti un po’ dovrebbe farci paura e svegliarci.
[bozza testo:] 
Numeri, dati, statistiche e poi ancora altri numeri, dati, statistiche. La pandemia ci ha bombardati di informazioni numeriche, ma spesso dare un senso a queste informazioni non è facile. Partiamo dal numero piú facile e difficile di tutti: zero.
Zero: il numero. Suggestivo è il concetto di numero secondo Dedekind: un numero è una sezione, un “taglio” (che divide l’asse dei numeri reali in due parti). Astraendo il termine “taglio” dal contesto geometrico-matematico si potrebbe dire che un numero è sempre una rappresentazione parziale (e quantitativa) di un oggetto sottostante, mirato a evidenziare *solo una certa* proprietà e inoltre sempre accompagnato da una particolare incertezza (o intervallo di confidenza). Ad es. in vocabolario scientifico si dice: “sono alto 1.80 ± 1 cm”, se il nostro metro di misura ha delle tacche distanti 1cm (sensibilità dello strumento). In particolare quindi il numero, in rapporto a qualsiasi oggetto della realtà, è sempre un qualcosa di relativo e mai assoluto (c’è sempre qualcosa che non coglie). Relativo a un osservatore, a uno strumento di misura e a un discorso che identifica un oggetto e ne motiva la correlazione quantitativa. 
Nella questione contingente del covid-19, i “malati” (oggetti di interesse) vengono contati usando il “tampone” (strumento di misura). Ma essendo questa un’operazione binaria malato-non malato (classificazione) per essere una rappresentazione significativa (oggettiva) dovrebbe prevedere come insieme di interesse l’intera popolazione e dovrebbe essere misurata contemporaneamente; ovviamente questo sfugge alla praticità, che viene quindi surrogata introducendo una temporalità fittizia (“malati al giorno”, “malati rispetto a un anno fa” etc.) di un campione particolare, scelto non casualmente nella popolazione, potenzialmente già sintomatico, introducendo un pesante bias metodologico. 
Anche il numero dei morti presenta un dilemma simile, ma in un certo senso ribaltato. È molto più semplice contare il numero dei morti dell’intero insieme di interesse, ma è invece molto difficile classificare i “morti da covid” rispetto ai “morti non da covid”; lo strumento di misura è efficace, ma è invece il nostro oggetto di interesse a essere mal definito.
Per analizzare il modo in cui i numeri diventano una buzzword possiamo spacchettare la questione su quattro livelli: raccolta, analisi, comunicazione e rappresentazione.
Primo, la raccolta.
Questa puó avvenire da parte di soggetti pubblici (es: il servizio sanitario nazionale) oppure privati (es: la GMAFIA – Google, Microsoft, Amazon, Facebook, IBM, Apple). L’impressione è che i primi non ne abbiano raccolti abbastanza, mentre i secondi (come sempre) ne abbiano raccolti troppi. Mentre Google pubblica i suoi “Covid-19 Community Mobility Reports”[1], per molte persone potenzialmente affette da Covid è stato difficilissimo ottenere un tampone e quindi entrare nei conteggi ufficiali. Lo stesso vale per il conteggio di chi non ce l’ha fatta: non sempre le morti sono state contate come morti da Covid, perché non tutte le persone decedute in situazioni “a rischio” sono state testate. Vale quanto detto, ma anche il contrario e cioè, quante delle persone che sono state dichiarate decedute a causa del Covid (che poi vuole dire che sono decedute con il Covid) e che erano già affette da almeno altre 3 patologie croniche [2] sarebbero ugualmente decedute, magari un mese dopo di quanto è accaduto? Una domanda alla quale è impossibile rispondere. Il problema della raccolta diventa ancora piú grande quando si provano a fare comparazioni. Anche solo a livello nazionale, confrontare dati tra regione e regione può non risultare corretto. Se la regione “A” oggi fa 20.000 tamponi e riscontra +1.500 positivi mentre la regione “B” fa 5.000 tamponi e riscontra 150 positivi, quale valenza ha confrontarne i dati? Come è stato scelto il campione sul quale effettuare il test? Cosa rappresentano quei numeri? Questo è ciò che è avvenuto e sta avvenendo quotidianamente durante la pandemia. La situazione diventa chiaramente ancora piú complicata sul piano internazionale: paesi diversi hanno conteggiato in maniera diversa, quindi confrontare le percentuali sulla mortalitá e gli indici di contagio fornisce spesso un quadro non accurato della situazione globale.
Secondo, l’analisi.
La statistica si basa sull’applicazione di modelli, ma non tutti i modelli sono adeguati per tutti i tipi di analisi. La statistica si basa anche su indicatori, per i quali vale lo stesso discorso dei modelli. Anche avendo tutti i dati dell’universo non è detto che da questi si possa ricavare “la veritá” sull’universo: dipende da quali modelli si usano e da quali indicatori si scelgono. Per esempio si parla da molto, da prima del virus, delle aberrazioni delle intelligenze artificiali che basano la loro classificazione a partire dai dati che vengono forniti in ingresso, introducendo degli orientamenti “a priori”, dei pregiudizi, in gergo chiamati *bias*, che hanno dato luogo a veri e propri esempi di “razzismo algoritmico” [3]
Cosí si puó dire che la “Didattica A Distanza(DAD) dopotutto non è cosí male perché il modello del riferimento è la prole della classe media che vive in un contesto urbano. Le famiglie che abitano in campagna o in montagna, che non possono permettersi un computer o neanche un tablet, che vivono in Italia ma non sono “italiane” secondo lo stato, non sono sono parte dell’analisi sulla DAD. A volte basta molto poco per fare funzionare l’analisi statistica: basta scegliere i campioni giusti.
Terzo, la comunicazione.
Su questo punto si è davvero toccato il fondo come solo il giornalismo italico sa fare. Titoli sensazionalistici, numeri e dati buttati a caso, gaussiane everywhere, grafici senza senso. L’importante è fare notizia e generare click e angoscia. L’approccio al giornalismo scientifico sulle piattaforme di informazione mainstream era giá indecoroso: con il covid è diventato vergognoso. 
Numeri, numeri e ancora numeri, spesso con scarso valore scientifico, riempiono le pagine dei giornali e di praticamente tutti i canali di informazione. Numeri letti (interpretati) in modi diversi ed utilizzati per strategie diverse ma sempre numeri, usati per giustificare l’una o l’altra posizione.
Perchè il numero dà forza, il numero è “tecnico” il numero è “puro”, il numero è “oggettivo”. Ma, come per la tecnologia, neanche i numeri sono neutri.
Questi numeri diventano ancora meno neutri quando vengono usati non per tracciare un quadro della realtá, ma per immaginare il modo in cui cambierá nel futuro. Solo un esempio, tra le centinaia di proiezioni comparse all’inizio della pandemia, quando tutti, ma proprio tutti tutti, compresi i portali di previsioni meteo, si sono buttati a capofitto nella grande e meravigliosa giostra dei numeri. Un articolo del 21 marzo 2020 [4]. Guardate le previsioni, confrontatele con i dati reali e traetene le conclusioni che volete. Accanto a questo esempio, ce ne sono tanti altri sulle ipotetiche conseguenze economiche, politiche, addirittura psicologiche che il covid-19 avrá sul genere umano. Queste previsioni ci vengono spesso presentate come “il modo in cui le cose sicuramente andranno” (almeno per chi le ha elaborate), ma i dati non escono da una sfera di cristallo infallibile, anzi: a seconda di chi la usa, e perché, possono mostrare futuri molto diversi tra di loro. La sfera non ci mostra la realtá, ma una rappresentazione di essa: questa rappresentazione è sempre relativa [5].
Quarto. la rappresentazione.
Vorremmo adesso far vedere meglio con un esempio cosa significa che il dato è una “rappresentazione relativa”. Prendiamo adesso un numero fra i più discussi, il tasso di letalità: num morti / num malati. Questo dato è offerto dall’ISS in correlazione con le categorie più naif della persona umana, il sesso maschile-femminile e l’età (in fasce di 10 anni). Osservando i numeri si potrebbe desumere che “a parità di fascia di età il covid sia notevolmente più letale per gli uomini che per le donne (circa il doppio)” [6]. Un risultato assolutamente sorprendente che i virologi hanno provato a interpretare nei modi più fantasiosi. Sembra assolutamente incontestabile, nella sua semplice rappresentazione.
Ciò che vorremmo (provocatoriamente) contestare stavolta non è né l’oggetto in sé (il tasso di letalità) né lo strumento di misura (il rapporto da cui deriva) ma la presentazione in categorie che incasella il numero stesso e ne fa derivare un’interpretazione potenzialmente fallace; in particolare diciamo che non convince la divisione in fasce di età. Iniziamo col notare che l’aspettativa di vita di un uomo è notevolmente inferiore a quella di una donna (di almeno 5 anni per le stime italiane – altrettanto contestabili), per svariati motivi non sempre chiari, che vanno dallo stile di vita, alla produzione di ormoni etc. Giá le stesse categorie di “uomo” e “donna” non sono definibili in maniera univoca: si vedano gli ultimi decenni di teoria queer e anche la biologia. Per il momento però, teniamo per buona questa distinzione in quanto rappresentata nei dati ufficiali sui quali ci interessa fare una critica ulteriore, a partire dal concetto di etá.
Ovvero bisogna riconoscere che l’età cronologica è appunto nient’altro che una produzione assolutamente umana, e che l’orologio biologico di un individuo possa seguire dei ritmi ben diversi da quelli scanditi dal certificato anagrafico. In effetti è impossibile, anche per la più avanguardista scienza moderna attuale, datare l’età di un essere umano in vita: i fattori sociali, ambientali, psicologici e biologici che influenzano il funzionamento e lo “stato” del nostro corpo sono molti ed interagiscono in maniera complessa ed inprevedibile. In un certo senso è proprio questa un’assolutizzazione numerica che il covid-19 non (ri)conosce. Se proviamo quindi a “relativizzare” l’età, (esagerando), ovvero a spostare la tabella delle morti maschili mezza riga più in basso e poi ad unirla con la tabella delle morti femminili, noteremmo che il tasso seguirebbe una progressione piuttosto ordinata (a parte le code) e si dovrebbe concludere non più che “il covid ammazza maggiormente gli uomini” ma dato che “gli uomini invecchiano più velocemente delle donne” “il covid ammazza tutte le persone progressivamente con l’età relativa, indipendentemente dal sesso”. Ma vi pare possibile rinunciare alla nostra età? Al nostro compleanno? Alla più ovvia assolutezza del *nostro* numero, che da sempre ci caratterizza? In cambio del fumoso e opinabile concetto di “aspettativa di vita”, poi! Tsk tsk! Anche se impossibile da condividere questo ragionamento è emblematico per far vedere come nella *semplice presentazione di un dato* c’è sempre un non-detto, c’è sempre un “taglio” che porta via qualcosa anche quando non sembra, e che questo qualcosa possa essere di gran lunga più importante nell’interpretazione di un fenomeno di quanto invece non sia deducibile dalla presentazione del dato stesso.
Conclusioni
La tecnologia ha un ruolo fondamentale nella raccolta di numeri, ma i processi attraverso cui questi numeri diventano dati, poi informazioni, poi conoscenza sono estremamente complessi. I numeri vengono usati come buzzword per convincere il pubblico su cosa sia giusto o non giusto fare, piú che per informarlo. In veritá, prima di poter trarre conclusioni sensate sui numeri del covid-19 passerá molto tempo: ci vorranno mesi, piú probabilmente anni, per selezionare, armonizzare, analizzare l’enorme mole di dati raccolta a livello globale. Questo non significa che dobbiamo disinteressarci ai numeri della pandemia, né che dobbiamo rigettare tutte le analsi quantitative fatte fino a oggi. Ma nella lettura dei numeri e delle analisi basate su di essi dobbiamo sempre avere un occhio attento verso chi le sta proponendo, per quale motivo, a partire da quali assunzioni e visioni del mondo. Sopratutto, dobbiamo differenziare tra i dati che registrano un fatto oggettivo (esempio: il numero dei morti), e i dati che vengono usati per elaborare modelli e previsioni (esempio: le previsioni sui danni economici del virus). I primi sono dati tangibili e piú difficilmente “interpretabili” ed in alcuni casi forse anche sottostimati [7]. I secondi sono quelli che piú si prestano a manipolazioni e interpretazioni che non necessariamente hanno come prioritá la salute pubblica o il bene comune.
[4]
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e per finire in allegria, qualche giochino interessante con le simulazioni: https://ncase.me/covid-19/

Smart Working

# smart working

di come ci si deve reinventare a lavorare in casa
di come il capitalismo ne approfitta in situazione di pandemia e scopre che potenzialmente si puo’ non pagare l’affitto e mandare tutti a casa a me tolgono le ferie perché lavoro da casa 🙁 1.5 giorni di ferie al mese).
lavoro e sfiducia. la necessita’di controllare le persone. ma sono a casa e non si puo’ controllare se sono davanti ad uno schermo o no. la burocrazia del segnarsi le ore di lavoro e che scrivere cosa si e’ fatto da che ora a che ora.

proviamo ad affrontare il tema ambientalismo sulla riduzione di spostamenti per andare a lavorare
macchina: 
Tanto per iniziare non c’è nulla di smart nello smart working. E’ sempre lavoro, per cui difficilmente sarà smart. E’ smart per il tuo capo che non deve preoccuparsi di fornirti gli strumenti, nè tantomeno la connessione. Per te è semplicemente lavoro, con i suoi pro e i suoi contro.
I pro sono che puoi svegliarti più tardi, puoi buttarti sul letto a riposare, puoi stare in tuta, non devi sorbirti colleghi fastidiosi, non hai il capo che ti alita sulla nuca, puoi mangiare cose buone cucinando a casa.
Il contro essenzialmente è uno ed è il rovescio della medaglia: il tempo del lavoro entra nella tua intimità. Si fanno permeabili i confini tra il tempo libero e il tempo trascorso a lavorare. Puoi lavorare mentre cucini, mentre sei al bagno, mentre vai a letto. Devi darti una disciplina, altrimenti sei fregata ed è sempre dietro l’angolo il rischio di diventare workaholic. 
Ma questo era lo smart working in tempi non sospetti. 
In tempi di pandemia, il tuo capo sa che non puoi uscire di casa e immagina che di conseguenza tu sia disponibile 24/7. Come se lavorare da casa durante una pandemia fosse salvifico per non impazzire (cit. testuali parole del boss “Meno male che avete da lavorare così non vi deprimete”). 
 
Piccolo breviario di sopravvivenza: da una certa ora in poi smetti di rispondere alle mail, smetti proprio di guardarle. Non aprire i gruppi whatsapp, non lasciare in giro notifiche che “hai visualizzato il messaggio”.
Le piattaforme vogliono addestrarti a essere sempre reattivo, tu addestra i tuoi boss e i tuoi colleghi al fatto che non sei sempre disponibile né tantomeno sempre connessa.
La tecnologia viene da sempre proposta come un modo per liberarsi dalle fatiche del lavoro. Ma appena ci si libera da una fatica, ecco che ne compare un’altra. Lo smart working è appunto l’esempio piú recente di questa dinamica. La tecnologia puó liberare dalla fatica, ma non puó liberare dallo sfruttamento: il Capitale non è mai sazio del nostro tempo e della nostra energia e vuole sempre averne di piú. 
Infatti, molti padroni non hanno perso l’occasione per trovare modi creativi di raggirare il diritto del lavoro e mettere in pratica nuove forme di smart-sfruttamento. E dobbiamo pure ringraziarli, perché offrono lavoro
La situazione dei lavoratori è peggiore di quella che ci si possa aspettare: tanti sono in cassa integrazione, molti dei quali stanno continuando a lavorare come prima.

Tanto se sei in casa senza lavorare ti deprimi, no? 

Molti hanno scoperto di essere in cassa integrazione in maniera retroattiva, magari l’azienda ha scelto anche di integrare lo stipendio così da fidelizzare il dipendente (quasi come se fosse un cliente da accontentare) e fargli accettare silenziosamente determinate condizioni di lavoro. E il non sapere di essere in cassa integrazione ha impedito a molte persone di usufruire delle agevolazioni messe a disposizione dello stato, come quella sugli affitti di casa.

Tanto lo stipendio non è diminuito, no?

Molti lavoratori hanno scoperto di avere colleghi peggiori di quello che si aspettavano; quando si afferma che lavorare durante le ore di cassa integrazione è una truffa [0] ci si sente rispondere che è una situazione in cui sono contenti tutti: l’azienda risparmia, così è più in salute e lo stipendio netto non è cambiato.

Tanto lo fanno tutte le aziende, no?

Molti datori di lavoro danno per scontato che si sia sempre reperibili per il semplice fatto di essere in smartworking: e allora via con le confcall che durano ore andando ben oltre gli orari canonici di lavoro, con le email a cui si risponde in orari assurdi, via alle inutili estenuanti corse alla consegna di un qualcosa che non si venderà mai ma che ti porta a lavorare fino alle 2 del mattino.

Tanto non puoi uscire, no?

Molti lavoratori in smartworking si trovano ad essere controllati in maniera ossessiva dai propri datori di lavoro: ci sono responsabili d’area che – se va bene – ogni settimana  devono “attivare” lo smartworking (in alternativa ci sono le ferie forzate o il rientro in sede, con tutti i rischi del caso) ad ogni singolo dipendente, dandogli una specifica attività misurabile in modo che l’azienda possa controllare quanto il dipendente lavori; viene così aumentato il carico di lavoro per chi si occupa di gestire le risorse, mettendoli anche in una posizione piuttosto scomoda con i colleghi.

Tanto non hai niente da nascondere, no?

 

Molti lavoratori oltre alle ore di cassa integrazione, in busta paga si sono ritrovati con delle ore di ferie o permesso godute, in nome di una maggiore flessibilità oraria che ti permette di non prendere ore di permesso o ferie per poter svolgere delle attività personali: se si rompe la lavatrice, non hai bisogno di prenderti mezza giornata di permesso per aprire al tecnico che te la ripara, sei già a casa.
Andando avanti così per vari mesi, non rimarranno giorni per andare in ferie, in barba a qualsiasi CCNL italiano.

Tanto al mare quest’anno non si va, no?

 

La cosa che fa più andare sui nervi, è che le aziende in tutto ciò ne escono pulite, perché formalmente non obbligano ad alcun orario di lavoro, ma di fatto non permettono di lavorare negli orari in cui fa più comodo al dipendente, c’è sempre una di quelle fantastiche clausole scritte piccole piccole che obbliga il lavoratore a rispondere alle richieste dei colleghi entro un tot di tempo (spesso tra i 30 e i 60 minuti).
E poi se ci sono delle riunioni negli orari in cui c’è la soppressione dell’orario di lavoro (ricordate? si è in cassa integrazione), è coscienza del lavoratore partecipare o meno. 
Il risultato è che si lavora comunque più del dovuto, quasi certamente senza gli straordinari pagati (altrimenti come si fa a giustificare la cassa integrazione), con un maggiore controllo e una enorme sfiducia reciproca.

Tanto non si viene licenziati, no?

 

Qualche link

Decameron Hacker

DECAMERON HACKER

 

#### buzzword affrontate ###

# smart working
# snumbers
# streaming
# DAD – didattica a distanza

 

come funziona?

Se ti piace quest’idea e vuoi partecipare adotta una buzzword e mandaci il testo

 

 

mettiamo un cappellino sulla parola “buzzword”

la Buzzword

Abbiamo deciso di parlare di buzzword, visto che diventa sempre piu’ chiaro che alcune parole in ambito tecnologico vengono utilizzate per impressionare, senza che ci sia una corrispondenza tra la parola e il reale.

Naturalmente la prima buzzword è la parola buzzword stessa.
Buzz e Word sono due parole e indicano letteralmente: una parola che ronza, che suscita emozioni. O anche una diceria. Una parola alla moda, d’effetto, ma anche una frase presa dal gergo tecnologico, usata per simulare familiarità con l’argomento e abusare della credulità di chi ascolta.

Chiamata Schalwort in tedesco, o frase Zumbona in ispanico, in italiano non abbiamo la fortuna di avere una sola parola e dobbiamo ricorrere a una perifrasi. O forse possiamo accettare l’aiuto che ci diedero Monicelli e Tognazzi, quando inventarono nel film: Amici miei con il termine “supercazzola”; da allora entrata nel gergo comune per indicare un giro di parole allo scopo di confondere le idee al proprio interlocutore.

Facciamo un esempio:
Qui in Italia la App per combattere l’epidemia di Covid-19 si chiama “Immuni”.
– Perché, rende immuni?
– No. È una App, non un vaccino.
– E allora perché si chiama Immuni?

Dell’uso del linguaggio per confondere e influenzare troviamo traccia nei classici: Don Abbondio ricorre al latino per fregare Renzi e non dirgli che non intende sposarlo con Lucia perché così ordinatogli dal potente Don Rodrigo. Renzi ragionerà con semplicità che quell’uso del “latinorum” non lo convince per nulla.
I tempi sono cambiati e l’inglese ha preso il posto del latino come lingua comune della comunità dei dotti, oggi gli anglicismi sono molto usati per confondere, influenzare o semplicemente darsi delle arie.

Chiunque sano di mente si sarà domandato perché una riunione aziendale venga chiamata briefing. In politica come in azienda la buzzword viene usata per privilegiare la retorica sulla realtà.

È infatti nell’uso degli anglicismi che troviamo alcune parole molto influenti; una su tutte la parola: “smart”.  Nell’accezione odierna Smart significa intelligente, furbo o moderno. Definirsi smart è però un modo per far apparire stupidi gli altri. Se qualcosa si chiama smart (intelligente) significa che chi non la capisce o non la usa è dumb (stupido). Smart (acronimo di Self-Monitoring, Analysis and Reporting Technology o anche di: Surveillance Marketed As Revolutionary Technology), in realtà indica: “un dispositivo che raccoglie i dati del suo utilizzatore”. Spesso a sua insaputa. Vedi smartphone o smartcity o smartworking.

Pensiamo che la supercazzola non stia nella parola, ma nell’uso che ne viene fatto e da chi, dal contesto e soprattutto dalla relazione di potere. Non è oggetto di questi scritti una parola inventata come codice comune in un gruppo, ci interessano invece le parole usate dal potere per influenzare le persone, che in questo caso hanno solo una valenza negativa, perché servono a manipolare e controllare.

Siamo hacker e parte della nostra attitudine corrisponde nell’esercitare il
senso critico e dunque mettere in discussione l’autorità, che in questo caso è l’ambiente tecnologico che ci circonda, e che ci viene proposto tramite l’uso di buzzword.

Abbiamo dunque deciso di individuare alcune buzzword e di decostruirle, strato dopo strato, per mostrare in che modo durante la pandemia e le emergenze, i sistemi di potere agiscono e si riproducono attraverso il linguaggio e la tecnologia.

# smart working

come ci si deve reinventare a lavorare in casa?
un pensiero su come il capitalismo ne approfitta in situazione di pandemia e scopre che potenzialmente si puo’ non pagare l’affitto e mandare tutti a casa, di come tolgono le ferie poichè si lavora da casa. 1.5 giorni di ferie al mese. Troppi. Lavoro e sfiducia. La necessita’di controllare le persone. ma sono a casa e non si puo’ controllare se sono davanti ad uno schermo o no. La burocrazia del segnarsi le ore di lavoro e di scrivere cosa si e’ fatto da che ora a che ora.

una storia di come si vinca la reperibilità totale assieme alle cuffiette.
Di come avvenga una riorganizzazione delle scrivanie e degli affetti.

 

# corpi online

proiezione del nostro corpo e della nostra socialita’ online.
come e perche’ non c’e’ piaciuto, non ci piace, non ci piacerà.

 

# snumbers

storie di big data e numeri interpretati male.
storie di come ti rigiro i numeri per farti credere tutto e il contrario di tutto.
Storie di statistiche che falliscono ma che graficano da paura
malagestione e interpretazione dei dati in pandemia statistiche

Per un errore informatico, alcuni assistiti della Regione Lombardia hanno ricevuto un SMS con il testo seguente: “Gentile Sig/Sig.ra lei risulta contatto di caso di Coronavirus”.

 

# dati e potere

chi decide e chi ha il potere davvero in una guerra di dati?
sai che anche se uno stato decide di usare un app con certi protocolli, poi ha bisogno che Apple e Google aggiornino i telefoni di tutto il mondo con le nuove API? Storie di piattaforme di educazione statali digitali che non sono mai esistite o non hanno mai funzionato e quindi ora ci pieghiamo a multinazionali e quando non cediamo al piegamento poi comunque ci ripieghiamo su google o microsoft.

 

# streaming // #ondemand // #gratis // #premium // #unlimited

di come ci opponiamo e vogliamo resistere ad una logica costante streaming dei contenuti. Crediamo in un alternativa che sia anche ecologica, crediamo che sia piu’ importante l’autonomia della comodità
crediamo di poter resistere a piattaforme ondemand che pensano e scelgono per noi come: youtube, netflix o spotify
Di come ci piacerebbe diventare pirati invece che clienti

# DAD – didattica a distanza

La didattica, nell’impossibilità di utilizzare piattaforme pubbliche.
La scuola, nel vuoto del pensiero e delle risorse strategiche.
Quella che era già una tendenza problematica, rischia ora di diventare la norma perché “siamo in emergenza”.

 

# la App Neuroni

Con la Fase 2 sarà fondamentale usare la App: "Neuroni".
Sviluppata da madre natura , Neuroni è una App gratuita che sfrutta la tecnologia Sinapsi.
Si tratta di una tecnologia per nulla invasiva della privacy e che rende l'App comunque utile anche quando il 60% della popolazione non ne fa uso.
La App Immuni ci dice se il tizio che era con noi in ascensore vi ha infettato.
La App Neuroni ci dice che per fare due piani possiamo prendere le scale.
Il grande vantaggio della App Neuroni è che è già installata in ogni scatola cranica e non richiede uno smartphone.
Neuroni è di facile utilizzo anche se per tenerla operativa è necessario aggiornarla costantemente:
leggere è il metodo più efficace. ma anche fare la settimana enigmistica, o il sudoku.